aurora:

Se le 5.33 del mattino sono un segno indicatore sul mio sentiero,
questa è una notte insonne.
Cosa sono due, tre ore, da un giorno nuovo e il suo strascico di promesse
senza fiducia; solo il salto goffo
rotto, incerto
per un che di irrimandabile.
Un segno implica un segno.
Qualcosa è stato di troppo
di solito, un confine valicato, la goccia che sbocca il vaso
all'improvviso un viso rigato, tradito
se pure quasi mai si dà una sola causa – d’ardore o sconcerto:
le membra, ciascuno la propria preghiera,
ogni pensiero un ricordo e un richiamo.
Persino il cielo deve saperne qualcosa
se di sudore bagna la sera e fiori di Zagara
e chiama i tormenti col loro nome.
Un inizio è un errore.
Non basta una prima nota a consolidarne la durata
la fine non si commuove al chiarore dell’alba, agli squilli di tromba:
sui momenti si china per esaudirli.
Affonda forme nel passato, il ricordo
le rimpicciolisce, declinando si contrae.
E’ una regola senza eccezioni.
Pure afferrarla non basta – in me fissarla, per sempre.
Non tornerà questa notte di pomelia e saliva
il mattino ne parla e non la trattiene.
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autoterapia

Non è casuale il tentativo di praticare questo sforzo – quello che mi devo e che puntualmente tradisco –proprio in questo momento, lo so. Ma non è il cielo bianco di novembre che lo chiede, né il sudore che ho lasciato sulle lenzuola di un letto non mio, e nemmeno gli occhi stanchi di indossare ancora un trucco ormai sbiadito. Non è la Nausea che solletica lo stomaco e pretende l’eruzione che più preferisce, neppure il consiglio della notte che ignoro da mesi. Non è la poesia a ricordarmi la forza delle parole, né la concentrazione chimica delle droghe leggere che (mi) serve per esercitarla completamente. E’ questa lucidità gentile che mi ha svegliata stamattina: la nitida visione del vero che necessariamente ferisce senza però nulla di personale. Ora ch’è finalmente scritta ne leggo la natura e ne riconosco l’errore; vedo la mia falsa attribuzione emergere come un relitto dalla bassa marea. Tolto l’uso improprio di un aggettivo qualificativo, rimane solo l’immagine nitida che restituisce dettagli precisi ad una messa a fuoco perfetta. E’ durata abbastanza da congedarsi con l’impronta del presentimento, dopo un paio di giorni l’ha visto realizzato.
Nel frattempo è venuto l’anno nuovo, ignorando che lo ignorassi. Ha portato con sé un dolore impronunciabile, di quelli così forti e profondi da portarsi via definitivamente una parte di te senza però la cortesia del congedo. La mia, quella smarrita, era la più pura e, anche se talvolta stento a crederci, pure a distanza di quasi un mese, devo averla perduta per sempre, o non mi sarei ritrovata a bagnargli la fronte di lacrime e baci farfugliando preghiere alla luna nel salutarla. Per l’ironia della sorte – più che in compenso – ne ho ereditato due larghi occhi chiari con sopracciglia folte e aggrottate e, da quando è successo, mentre mi sistemo allo specchio mi sento come turbata, in imbarazzo per quello sguardo che vedo riflesso e che quasi non mi sembra più il mio. Tra tutte, questa è stata senza ombra di dubbio la dipartita più penosa, ma non l’unica. Quella che ora mi spinge a riscrivermi, per esempio, ne è un’altra, meno penosa ma così patetica che non riesco nemmeno a raccontarla. Ma anch’essa, almeno, ha avuto la cortesia di congedarsi rapidamente.
Adesso che sono trascorsi più di due mesi è tutto più strano ma ugualmente abituale, incredibilmente quotidiano. Sono un’altra e la stessa al contempo, ma è così chiara e armoniosa questa sorta di scissione che mi sembra seriamente di non riuscire (più) ad avvertirne il peso. Sono finalmente cessati i miei rimproveri, si è dileguata la disperazione, è rimasta solo questa nuda angoscia così ordinaria e familiare, anche lei, che non serve più neppure sopportarla. E come il greco antico in filosofia, o la grammatica in filologia, anche oggi che rimango immobile davanti a questo cielo bianco che non mi lascia respirare, la  mia abitudine a sostare in prossimità dei limiti si sta rivelando davvero preziosa, come questo esercizio di autoterapia.

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vomitata:

Sono io quel relitto ch’emerge dalla bassa marea,
vittima del flusso ma complice del subisso;
la scialuppa rosso-fuoco nella cala,
cozze fuori stagione,
quel rivolo di fumo.
Sprofondavo e lo sapevo,
sulla duna l’ho imparato.
Dal mare sei venuto, con voce roca
me l’hai detto.
Ora mi conosco; il ritardo di un’eco.
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Disagio in versi:

Talvolta m'immagino bella
del solito incanto che
studiano gli Altri;
dei lineamenti, l'armonia
dei fianchi, l'incavatura che fa una donna
del sorriso, la perfetta misura

M'immagino bella, talvolta
libera dalla sorpresa nel riflesso
di restituire una
proporzione fasulla:
l'inganno che qualcuno distingua
il rimando dalla persona.

Così bella 
mi disegno del colore
di chi baciato dal Sole conosce
il privilegio
delle virtù mediocri
della compiacenza servile

E se riconosco l'ultimo come un giudizio,
lo ammetto, la smetto
scelgo
la sproporzione
della vita deturpata,
l'emarginazione dalla superficie
che nasconde l'incanto,
il violaceo dei capillari della pelle trasparente
l'affanno del respiro,
le chiome sparpagliate dal vento per la corsa,
l'unica corsa
diretta
alla passione inutile che giace
con le cose, in fondo alle cose.

 

 

 

 

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M. sul pianeta Terra in relazione alla Cosa Blu, pt.1

L’errore è proprio questo. Ritrovarsi alle due e mezza di notte, dopo un’intera giornata di lavoro, a riesumare dalle pieghe della memoria a breve termine tutti quei pensieri perfettamente lucidi – quelli che dicono “scrivimi!” – ignorando il loro silenzio così come li ignoro alle volte in cui affiorano senza permesso, noncuranti degli stati d’animo, del tempo costretto dalle necessità, del flusso veloce che mai la mia penna riesce ad inseguire. Eppure me lo devo, questo sforzo. Io non sono sul pianeta Trillafon. (Non più, almeno…) Io sono qui sulla Terra. E se penso di esserci capitata per caso, come tutti, ma di averla ormai scelta, mi viene da ridere – sebbene senta che mi si bagnano gli occhi. Io sono qui, sulla Terra, e la vedo per quella che è, malgrado gli Altri – quelli che sanno – mi vedano vederla distorta dalla mia lente blu. Potrei istupidirmi a spiegare come, di fatto, la mia prima e sostanziale divergenza con il mondo (e/con gli Altri) consista nell’evidenza per la quale il mondo in realtà appaia variamente colorato ma sia essenzialmente blu – e pertanto come sia la lente variopinta del mondo a far sì che gli Altri non lo vedano blu. Ma è noto come vadano a finire le cose per chi indica la luna quando gli Altri guardano il dito. Inoltre non è questo il caso. Qui si tratta di raccontare il mondo per come lo sento, dunque per come effettivamente è. E qui viene il punto – il momento – in cui ammetto di non biasimare affatto quelli che sul pianeta Trillafon sono convinti a rimanerci perchè il fatto è che non è granché accogliente la Terra, anzi, in particolar modo quando si è stati altrove pure rispetto al pianeta Trillafon, nel momento in cui si torna sulla Terra, inizia la Nausea: una Nausea terribile, permanente, a tal punto che ci si abitua presto al sapore e lo si confonde con quello della propria bocca e si finisce per sentire come un affanno totale che dal petto abbraccia lo sterno e poi tutto il corpo, articolazione dopo articolazione, fino ai capelli e alle unghia dei piedi.
Poco fa, poco prima che chiudessi il tubo, devo aver ingoiato un paio di lacrime ed è stato davvero strano perché ricordavo un sapore del tutto diverso, salato ma puro, come quello dell’acqua dei fiumiciattoli o dei piccoli laghi in prossimità del mare, invece di questo gusto amaro che all’improvviso ho sentito entrarmi in bocca, come quando dopo aver sniffato bamba dal naso scende alla gola e finalmente la senti e quasi ti disgusta. E’ lì e la riconosci. Quello è il momento in cui sale, la Nausea. C’era già prima: sostava borbottante sulla bocca dello stomaco già lo scorso venerdì sera; si è nascosta nella tasca del pigiama il sabato seguente; si è annidata nella sporcizia degli angoli sul fondo del secchio d’acqua sporca dove oggi inzuppavo e sciacquavo lo straccio; poi stasera è venuta fuori senza travestimento né invito. La sentivo brontolare di sottofondo dal centro della cassa toracica già alla prima birra poi dev’essermi come uscita dall’orecchio o da una narice ed entrata negli occhi ed ecco appiattiti tutti i colori, ecco il mondo spogliato delle sue sembianze, nudo, ed io con lui. Nuda. La Nausea è per me forse il freddo misto al profondo imbarazzo di sentirsi e sapersi nudi. E, come e più di un anno fa, è quasi il primo mese di primavera, ma qui, nella mia testa, è ancora inverno.

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