Non è casuale il tentativo di praticare questo sforzo – quello che mi devo e che puntualmente tradisco –proprio in questo momento, lo so. Ma non è il cielo bianco di novembre che lo chiede, né il sudore che ho lasciato sulle lenzuola di un letto non mio, e nemmeno gli occhi stanchi di indossare ancora un trucco ormai sbiadito. Non è la Nausea che solletica lo stomaco e pretende l’eruzione che più preferisce, neppure il consiglio della notte che ignoro da mesi. Non è la poesia a ricordarmi la forza delle parole, né la concentrazione chimica delle droghe leggere che (mi) serve per esercitarla completamente. E’ questa lucidità gentile che mi ha svegliata stamattina: la nitida visione del vero che necessariamente ferisce senza però nulla di personale. Ora ch’è finalmente scritta ne leggo la natura e ne riconosco l’errore; vedo la mia falsa attribuzione emergere come un relitto dalla bassa marea. Tolto l’uso improprio di un aggettivo qualificativo, rimane solo l’immagine nitida che restituisce dettagli precisi ad una messa a fuoco perfetta. E’ durata abbastanza da congedarsi con l’impronta del presentimento, dopo un paio di giorni l’ha visto realizzato.
Nel frattempo è venuto l’anno nuovo, ignorando che lo ignorassi. Ha portato con sé un dolore impronunciabile, di quelli così forti e profondi da portarsi via definitivamente una parte di te senza però la cortesia del congedo. La mia, quella smarrita, era la più pura e, anche se talvolta stento a crederci, pure a distanza di quasi un mese, devo averla perduta per sempre, o non mi sarei ritrovata a bagnargli la fronte di lacrime e baci farfugliando preghiere alla luna nel salutarla. Per l’ironia della sorte – più che in compenso – ne ho ereditato due larghi occhi chiari con sopracciglia folte e aggrottate e, da quando è successo, mentre mi sistemo allo specchio mi sento come turbata, in imbarazzo per quello sguardo che vedo riflesso e che quasi non mi sembra più il mio. Tra tutte, questa è stata senza ombra di dubbio la dipartita più penosa, ma non l’unica. Quella che ora mi spinge a riscrivermi, per esempio, ne è un’altra, meno penosa ma così patetica che non riesco nemmeno a raccontarla. Ma anch’essa, almeno, ha avuto la cortesia di congedarsi rapidamente.
Adesso che sono trascorsi più di due mesi è tutto più strano ma ugualmente abituale, incredibilmente quotidiano. Sono un’altra e la stessa al contempo, ma è così chiara e armoniosa questa sorta di scissione che mi sembra seriamente di non riuscire (più) ad avvertirne il peso. Sono finalmente cessati i miei rimproveri, si è dileguata la disperazione, è rimasta solo questa nuda angoscia così ordinaria e familiare, anche lei, che non serve più neppure sopportarla. E come il greco antico in filosofia, o la grammatica in filologia, anche oggi che rimango immobile davanti a questo cielo bianco che non mi lascia respirare, la mia abitudine a sostare in prossimità dei limiti si sta rivelando davvero preziosa, come questo esercizio di autoterapia.
autoterapia
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